Mi sono imbattuto di recente e “per caso” con un libro di don Manuel Belli, “L’epoca dei riti tristi”, che mi ha aiutato a mettere a fuoco alcune caratteristiche della vita in cui siamo immersi e, perché no, anche dei nostri ambienti di pratica.
Il titolo si ispira chiaramente a “L’ epoca delle passioni tristi”, con cui Schmit e Benasayag nel 2004 avevano aperto il vaso di Pandora rispetto al malessere diffuso a tutti i livelli della società. Un malessere che nella prospettiva degli psicologi origina (anche) dal fatto che spesso nella vita di tutti i giorni non si trova ciò che desideriamo e finiamo col desiderare ciò che troviamo.
Gli studi e le teorie sui riti partono dalla constatazione che gran parte della nostra esistenza, se non tutta, è permeata di di ritualità. Spazi e tempi sono scanditi da gesti, comportamenti, parole che influenzano non solo le nostre relazioni ma si “contaminano” tra di loro. L’abitudine a relazionarsi attraverso uno smartphone, per esempio: quanto e come ha cambiato quelle ritualità -che potremmo definire “abitudini” di cui è fatto, vale a dire, un rapporto di amicizia, una relazione sentimentale, l’organizzazione di un viaggio, la condivisione di un pasto, lo svolgimento di una mansione professionale…?
La tesi di fondo, dunque, è: come è possibile fare un’esperienza costruttiva di una ritualità che potremmo definire “ad alto valore aggiunto” se ci si ritrova immersi in un’epoca piena di passioni “tristi”, cioè di abitudini e riti in cui l’esperienza di senso è rarefatta, inafferrabile?
E’ chiaro che la prospettiva dell’Autore è quella di porsi delle domande di senso in riferimento ad una necessità di ridiscutere la comunicazione del rito in ambito religioso.
Ma siamo sicuri che non farebbe bene, un gran bene, porsi le medesime domande anche in altri contesti? In tutti gli ambiti relazionali? E perché no? Anche nella pratica?
Si legge in continuazione che molti dei nostri ambienti hanno un cronico problema di sostenibilità. Pochi partecipanti, ancora meno giovani (qualunque cosa voglia dire il termine “giovani”, e in questo il libro citato offre spunti interessanti) e “bambini a cucù”, che appena diventano adolescenti si dissolvono come neve al Sole. A tutto ciò si aggiungono i problemi legati a questo periodo e alle prospettive non proprio rosee in cui sembriamo, socialmente ed economicamente, indirizzati.
E quindi: che ritualità comunichiamo? In Dojo e sugli strumenti di comunicazione? Perché dovrebbe interessare una disciplina che in molti luoghi e in molti canali è descritta un po’ come quel luogo e quello spazio in cui diventare dei piccoli soldatini in estatica contemplazione del sensei di turno? Come quel luogo e quello spazio in cui ammirare le mirabolanti proiezioni di questo o quel sensei su YouTube nella consapevole certezza di non poter arrivare a quel livello o nell’inconsapevole inseguimento di modelli autoattribuiti che rimangono alla superficiale esperienza di torcere polsi e ricevere braccia tese sulla gola…
Che valore aggiunto c’è a entrare in un luogo di pratica avendone cura attraverso la cura personale -dall’igiene al riscoprire di avere orecchie per ascoltare quanto ci dicono e bocca per dare e restituire sorrisi e saluti? Che valore aggiunto c’è a imparare termini di altre lingue e culture, con cui ingaggiarsi con impegno e ringraziarsi per questo impegno all’inizio ed alla fine di ogni esercizio?
Che valore aggiunto c’è a investire tempo per la comprensione di un bagaglio tecnico, anch’esso codificato in una ritualità e in termini che derivano dalla cultura giapponese?
Sono domande aperte, ovviamente. E’ naturale, esattamente come suggerisce il libro, che se si è abituati ad un’esistenza in cui si fa fatica a trovare il senso nel lavoro quotidiano che facciamo (o alla sua tragica assenza); se si fa fatica a puntellare la propria sfera emotiva e relazionale; se insomma c’è una grande distanza tra questa enorme fragilità in cui siamo immersi come in una melassa e l’immagine di luoghi di pratica “duri e puri”, allora è ovvio che sia difficile, se non impossibile, “riempire” i nostri corsi.
Giovani -e meno giovani- sono incredibilmente attratti da quell’autenticità che sa accogliere e parlare alle loro -alle nostre- fragilità. Fragilità che vanno via via ingigantendosi come fenomeno sociale e alle quali come “adulti” dovremmo perlomeno provare a fornire delle prospettive di supporto.
Tuttavia, il mondo delle Arti Marziali, che del resto del mondo è una piccolissima parte, è poco abituato a ciò. Fa coincidere il concetto di fragilità con significative esperienze per il mondo della disabilità. O si organizza per iniziative al femminile. Come se, al di fuori dell’essere disabile o donna, la fragilità non esistesse. Questo modo di fare è miope, parziale e, se vogliamo, legato a cliché dal profumo sessista.
Pensare di insegnare o praticare una disciplina marziale senza tenere conto del fatto che le ritualità quotidiane non impattino l’insegnamento o la pratica, è puerile.
Fortunatamente esiste anche l’opposto: è altrettanto difficile pensare di immergersi in una dimensione di pratica senza pensare che questa non porti a qualche cambiamento anche nelle altre dinamiche quotidiane.
Ci riempiamo la bocca, le orecchie e gli occhi di frasi, video, post, locandine. Citiamo a memoria in modo meccanico rimandi alla “cedevolezza”, all’ “armonia”, al “miglioramento personale”. Ma poi, come li abitiamo questi concetti? Quanto spazio lasciano “armonia e cedevolezza” ad integrare nei nostri “riti di pratica” le fragilità nostre e altrui? O siamo talmente abituati a tramandare un codice di comunicazione che abbiamo ricevuto senza comprenderlo che lo riproponiamo come tanti piccoli elefanti nelle cristallerie altrui?
E ci stupiamo che i corsi siano vuoti?
O va bene così perché tanto abbiamo qualcuno che ci chiama…Maestro?
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